In occasione dell’uscita della recensione di Il segno dell’acqua di Raffaele Spidalieri abbiamo voluto fare un paio di domande a questo artista molto speciale: medico oltre che musicista, soprattutto neurologo! Una figura a cavallo fra medicina e arte più che mai attenta al tema a noi più caro, il rapporto fra salute e cultura. Ci ha risposto con la creatività che è anche nelle sue canzoni che vi invitiamo ad ascoltare intanto su Youtube, in attesa del Vinile in uscita a gennaio 2023.
La bellezza e l’arte – è opinione diffusa – fanno bene alla salute: un valore che in molti riconoscono ma che troppo in pochi ricordano. Lo dicono gli scarsi investimenti che in cultura vengono fatti, specie nel nostro Paese. Andiamo a chiedere ad un artista, un musicista ed un poeta, ma anche un medico di raccontarci e di dimostrarci questo assioma. Magari andandone a sviscerare tappa per tappa il contenuto.
Bello è ormai un aggettivo che spesso usiamo per indicare ciò che ci piace, che desideriamo, che pensiamo possa far crescere qualcosa di noi, dentro o fuori. In realtà il senso di bellezza è diverso dal desiderio; ci sono cose che risultano piacevoli da guardare ed ammirare indipendentemente dal desiderio di possesso che proviamo nei loro confronti. Platone definiva la bellezza come armonia e proporzione. C’era la ricerca di canoni che potessero esprimere questo concetto. Dall’architettura alla musica. E la funzione dell’arte nei secoli forse è stata proprio questa necessità di tradurre, riprodurre, elaborare, interpretare, basandosi su complessi di regole e di esperienze conoscitive e tecniche. E questi processi si sono trasformati nel corso dei secoli ma non per questo hanno mutato il loro scopo.
Il problema dei nostri giorni forse nasce proprio dai canoni di riferimento da cui partiamo.
Possiamo apprezzare Giotto solo contestualizzando il periodo in cui produceva le sue opere. In tal modo possiamo comprendere la genialità dei suoi studi prospettici. Ma non possiamo dire che Caravaggio è “più bello” di Giotto. Questo tipo di approccio è totalmente sbagliato. Parlando di arte. Mentre parlando di bellezza possiamo tranquillamente asserire che preferiremmo avere appeso nel nostro salotto un Raffaello piuttosto che un Picasso. Se intendiamo il nostro bello come un qualcosa che preferiremmo possedere.
Il problema diventa più profondo quando parliamo di qualcosa non visibile. Finora abbiamo parlato di figure, di esteriorità. Di qualcosa visibile e tangibile. Ma la bellezza che ci commuove, quella che ci tocca l’anima, come la descriviamo? Come la classifichiamo?
Pitagora riteneva che spettava alla musica, la più nobile delle arti, parlare dell’anima. Certo è un linguaggio universale, ma anche questo ha le sue regole. La domanda è se siamo abbastanza preparati per comprendere la differenza tra Mozart e John Coltrane. E non sono casuali gli artisti che ho citato. Va bene inondarsi gli occhi di bellezza nei musei (per chi ci va). Ma forse andrebbero potenziati gli strumenti per decodificare e comprendere le forme d’arte. A partire dalla scuola materna. Lo studio dell’arte e della musica è sempre stato subordinato a tutte le altre materie. E spesso è stata vista come una perdita di tempo. Capito di cosa parliamo? Perdita di tempo studiare e comprendere materie che ci permettono di codificare e godere dell’espressività umana in tutta la sua storia.
Vediamo prima di tutto da un punto di vista neuronale quanto possa essere vero questo assioma
Nel nostro cervello ci sono zone deputate a vivere “il bello”. Certo, ci sono fenomeni complessi che portano ad attivare tutta una serie di circuiti che come risultante hanno un senso di appagamento. Poi ci sono fenomeni velocissimi, come l’ascolto di una sequenza di note che ci fa scattare un click emotivo devastante. Probabilmente perché va a pescare nel nostro hard disk emozionale. Ed è un processo che avviene in pochi decimi di secondo. Come fosse una chiave che apre di scatto una serratura. Sicuramente ci sono delle situazioni di vissuto che sono legate ad una musica, per cui funzionerebbe come una sorta di richiamo emozionale rapido. Ma ci sono situazioni nuove che provocano lo stesso effetto. Perché avviene questo? Perché ci sono delle situazioni che ci fanno sprofondare velocemente nel nostro intimo più profondo?
E da un punto di vista chimico?
Non so se questa domanda possa avere delle risposte e forse sarebbe anche bello non averne. Non sempre si può spiegare tutto, soprattutto quando si parla di emozioni. Anche perché c’è una barriera sottilissima che divide il materiale dall’immateriale, anche a livello di cervello. Sappiamo bene come funziona un atto motorio ma non sappiamo ancora bene come funzionano le emozioni (se non per i mediatori coinvolti). Non sappiamo come funziona quella sottile trama diffusa di cellule che costituisce il mistero umano. L’Io. Di sicuro c’è una serie di modelli, innati ed acquisiti, con i quali confrontiamo la realtà per creare delle opinioni, dei gusti, delle emozioni e delle reazioni a queste… C’è un passo di un famoso neurofisiologo, Sherrington, che riassume bene, dal punto di vista scientifico questo concetto: «Ogni giornata di veglia è un palcoscenico dominato, nel bene o nel male, si tratti di commedia, di farsa o di tragedia, da una dramatis persona, l’“io” […]. Questo io è una unità. La continuità della sua presenza nel tempo, interrotta di tanto in tanto dal sonno, la sua inalienabile interiorità nello spazio della percezione sensoriale, la invariabilità del suo “punto di vista”, la dimensione privata della sua esperienza, si combinano a dare a questo io lo stato di una esistenza unica».
Per cui, tornando all’incipit, forse bisognerebbe investire sulla costruzione di quei modelli interiori per consentirci di decifrare la realtà, anche attraverso l’arte. Perché forse l’arte è proprio questo, un’interpretazione, mutevole tempi e nei luoghi, della realtà che circonda la macchina uomo lasciandone traccia in eterno. E il primo investimento da fare, secondo me, è quello di base, quello per i bambini. Dar loro gli strumenti preziosi per la creazione dei propri modelli per interpretare l’universo. E sarà solo in quel modo che potremo recuperare la bellezza al di là dei canoni estetici. La bellezza come sensazione spiazzante, che può arrivare a condizionare le nostre scelte ed i nostri comportamenti. Quella che va oltre l’apparenza fisica e che si trova ovunque, anche nelle cose piccole ed apparentemente insignificanti. Quella che a volte, se non sempre, trasforma anche il brutto dandogli luce.