Il cinema è da sempre uno straordinario strumento di comunicazione: empatico ed emozionale. Probabilmente è pleonastico dire che è l’ideale per raccontare progetti sociali e affini?
Non credo sia pleonastico, è semplicemente vero, per tanti motivi: primo fra tutti la visione collettiva e condivisa che offre la sala. Purtroppo negli anni il cinema sociale è stato relegato ad una nicchia, anche perché considerato spesso pesante e retorico. In realtà l’esperienza cinematografica è perfetta per questo genere di storie, proprio perché chi si prende l’impegno di uscire di casa, cercare parcheggio, fare la fila, pagare il biglietto e spendere un’ora e mezza in una sala buia con altre persone, soprattutto in questo periodo di difficoltà sociale dovuta alla pandemia, sta dando un segnale forte ed è sicuramente alla ricerca di un gesto sociale. Forse è per questo che stiamo trovando tanti e calorosi spettatori appassionati che, durante le presentazioni, ci fanno capire che il cinema sociale può non essere più considerato solo di nicchia quando riesce ad emozionare senza essere retorico, quando soddisfa la necessità naturale di socialità che, il gesto stesso di andare al cinema innesca. Riteniamo di essere fortunati a girare le sale in questo periodo storico, nonostante tutto.
Quando avete deciso di raccontare la straordinaria esperienza dell’Housing first vi sarete, immagino, posti il problema di che cosa raccontare e di come raccontarlo: ce lo vuoi riassumere, ci fai capire il vostro processo artistico e mentale?
Così come il cuore del progetto “Housing first” è la casa, volevamo che anche il cuore del film lo fosse. Quindi il racconto doveva incentrarsi sul vissuto delle varie case che abbiamo individuato e che si sono rese disponibili a entrare nel film, con i relativi conflitti, con le coabitazioni felici e quelle che lo sono meno. Solo una volta dentro abbiamo incrociato le storie dei nostri protagonisti, che sono appunto i partecipanti al progetto. Volevamo vedere come si vive in quelle case, rubarne la quotidianità cercando di essere meno “presenti” possibile e solo dopo abbiamo chiesto a tutti se avevano voglia di raccontarsi e in che modo avrebbero voluto farlo. Da lì, dal confronto con loro, dal dialogo, sono nate le animazioni che compongono la parte più poetica e introspettiva del film, che in qualche modo ibrida la “narrazione del reale” classica che ne resta comunque lo scheletro portante. Diciamo che dal punto di vista narrativo, se posso riassumere in una parola, userei “condivisione”. Da un punto di vista linguistico, invece, direi contaminazione
Secondo te quali prospettive offre la documetaristica in questo senso? Come vedi il futuro per il genere?
Il cinema documentario è uno strumento eccezionale di condivisione e contaminazione. Offre opportunità stilistiche e creative di grande impatto e varietà. Probabilmente sarebbe stato impossibile utilizzare lo stesso schema creativo in un film di finzione. Il pubblico avrebbe accettato di meno i passaggi in animazione e avrebbe sentito il tutto come artefatto. Il documentario mantiene un livello di condivisione della realtà in grado di superare molte barriere nell’intimo delle persone e costruisce percorsi profondi di empatia con lo spettatore.
Questo genere è in un momento di grazia in Italia, ma le difficoltà per la maggior parte degli autori di fare prodotti professionali di un certo livello è limitata da un’industria indipendente con scarse risorse e da una commerciale molto appiattita su prodotti poco innovativi. Pochissimi documentaristi riescono a finanziare adeguatamente i propri lavori più autoriali e si fatica a trovare il sostegno degli investitori. Serve un patto con il mercato che possa sostenere questa positiva presenza di grandi e capaci professionisti, presenza finalmente intergenerazionale, prima che si sprechi questa occasione.
Progetti futuri?
Christian: Continuare a spaziare tra cinema di finzione, documentario e teatro, per esplorare diverse forse di linguaggio della narrazione.Tommaso: la priorità, per me, è quella di continuare a raccontare la relazione tra individuo e ambiente, tra essere umano e società, sotto qualsiasi forma creativa. Vorrei fare un film sulla visione del corpo umano nel terzo millennio, partendo dal concetto di seduzione; un film sensoriale che possa restituire un’immagine tridimensionale dell’individuo in un’epoca in cui tutto è diventato bidimensionale e in cui si spaccia persino una possibile “realtà aumentata”, come quella del metaversoo, che altro non è che una “visione alterata” e, quindi, una realtà minore…